Spirito di adattamento per superare le difficoltà, anche quando queste si chiamano cambiamenti climatici. Non è una soluzione magica, ma la direzione indicata dai più recenti studi sulla pianificazione urbanistica. Perché in un contesto nel quale i fenomeni meteorologici sono sempre più estremi e variabili, le sole politiche di mitigazione, che consistono nell'abbattimento delle emissioni inquinanti, sono insufficienti se non accompagnate da opportune azioni di adattamento dei sistemi urbani e territoriali al nuovo scenario. Riflessioni destinate ad avere un ruolo sempre più importante nell'ambito delle politiche locali e in tema con lo spazio dedicato alla sostenibilità che ogni settimana, per tutta l'estate, Il Giornale di Vicenza offre ai lettori, sulla scia di Agenda Sostenibilità, il maxi progetto pluriennale firmato dal Gruppo Athesis.
Di adattamento ai cambiamenti climatici ha parlato Mattia Bertin, ricercatore Iuav nell'ambito della pianificazione urbanistica, esperto in questioni urbane complesse, nel corso del suo intervento a "Cambiamenti climatici, resilienza e innovazione, tra rischi e opportunità. Pa e Pmi nel territorio e per il territorio", il dibattito organizzato nei giorni scorsi da Confartigianato Imprese Vicenza.
Bertin ha fatto il punto sui rischi per le comunità locali. «Quando parliamo di cambiamento climatico e disastri abbiamo un'immagine sempre legata ai fenomeni più estremi che hanno una capacità innata di far reagire l'umanità e i sistemi sovralocali, come quello della protezione civile, innescando forme di solidarietà anche internazionale. Il problema è quando i fenomeni sono di minore portata. Un evento minore, magari frequente, non attiva una sensibilità internazionale né i sistemi nazionali, ma è sulle spalle dei comuni, delle prefetture e soprattutto di lavoratori, imprenditori, volontari». Generando una serie di perdite «dirette e conteggiabili, come abbiamo visto con Vaia, cui si sommano gli effetti dati dalla ripetizione, il pericolo più grande per i nostri territori». Bertin parla di perdita di fiducia: «Del sistema imprenditoriale, del sistema turistico, fino alla perdita di fiducia del singolo nei confronti del proprio territorio. Queste tre colonne rischiano di crollare». In che modo? «Siamo soprattutto terzisti. Produrre per terzi che non sono in grado di recepire i nostri ritardi dati da eventi estremi fa perdere la fiducia nel nostro sistema. Il compratore finale cambierà quindi il luogo di produzione e questo impoverisce il territorio. Dal punto di vista turistico, poi, c'è il rischio che i grandi player cambino destinazione se il luogo scelto diventa poco attrattivo. Infine, abitare in un luogo in cui ci sono eventi climatici troppo frequenti ci fa desiderare di spostarci». Tre elementi che insieme portano all'abbandono del territorio. «Meno residenti vuol dire minori finanziamenti e quindi meno prevenzione. Se non abbiamo persone in età da lavoro e studio non abbiamo volontari, fondi e non possiamo più intervenire per sistemare i danni, è per questo che la ripetizione di eventi climatici che non fanno clamore produce danni importanti al nostro territorio».
E allora che fare? «È necessario agire in primo luogo attraverso lo studio degli impatti e l'interpretazione del rischio. In secondo luogo, adattando i luoghi della produzione, della vendita, dello stoccaggio, cioè trasformando gli spazi e i modi in cui intendiamo la produzione. Il Covid è stata una grande esperienza per capire che possiamo rapidamente cambiare il nostro modo di vivere. Lo stesso deve accadere nei confronti del cambiamento climatico. Possiamo agire anche ripensando alla logistica e al ruolo delle assicurazioni, la forma classica di assicurazione non è in grado di rispondere alle esigenze di oggi».